La Notte dell’Addio(A.Testa-G.Diverio) Festival di Sanremo 1966 – 2011. Per una analisi del testo

Scritto da Massimo Camarda per Scénario Musica, periodico musicale di informazione e attualità.  Per gentile concessione del direttore di Scénario Musica.

 

La notte dell’addio”, brano scritto da Alberto Testa e musicato da  Giuseppe Diverio, presentato al Festival di Sanremo del ‘66 da una giovanissima Iva Zanicchi e Vic Dana, è stato di recente riproposto alla stessa kermesse canora 2011 con un arrangiamento ed un’interpretazione  nuovi di Luca Madonia e Franco Battiato ,  ma all’altezza di uno dei testi più intensi della nostra tradizione italiana.

Qui si tenterà un’analisi che riconduca il testo alla dimensione per la quale e nella quale è nato, mettendone in luce gli indiscutibili pregi artistici.

 Già dal titolo emerge chiaro lo stato d’animo di chi si trova a dover affrontare il dolore del distacco e dell’abbandono, non a caso collocati nello spazio emotivo della notte, metafora dell’oscura incertezza del dopo e del buio di un’anima affranta.

L’abbandono, dunque, è percepito inesorabilmente come vuoto fisico e interiore, privazione dell’altro e assenza  di luce, ed è sull’opposizione semantica  pieno/vuoto e luce/buio che si costruisce tutto il testo,  articolato in quattro strofe metricamente uguali, con un bridge (letteralmente “ponte”, ovvero quella sezione del testo che funge da concatenazione fra le strofe) dopo le prime due.

Nelle strofe la rima non forza né banalizza mai il senso e si presenta alternata nei primi quattro versi  e baciata nel settimo e ottavo, mentre l’ultimo verso si ricollega in maniera breve e circolare al primo, sempre per mezzo di rima.

  Cominciamo con l’analizzare la prima strofa:

 La notte dell’addio

Il buio dentro e intorno

poi quando vuole Dio

si accende un altro giorno

la nostra casa vuota

il sole inonderà

e tu non ci sarai

e tu non ci sarai

amore mio 

Dal punto di vista semantico è interessante osservare come il binomio buio/vuoto si contrapponga a quello luce/pieno, i due versi La notte dell’addio/il buio dentro e intorno riassumono, infatti, inequivocabilmente l’assenza fisica dell’altro (addio) e la privazione della luce dentro e intorno, la luce della gioia (dentro) e della presenza altrui (intorno). Un barlume di speranza sembra tornare ai versi poi quando vuole Dio/si accende un nuovo giorno, dove i termini Dio, accende e giorno rimandano tutti alla metafora della luce.

Ma subito tornerà lo sconforto, espresso in tutta evidenza nella contrapposizione dei versi  la nostra casa vuota/il sole inonderà/e tu non ci sarai/ e tu non ci sarai, dove ancora una volta luce/pieno (il sole inonderà) e vuoto (casa vuota) si scontrano, lasciando spazio all’amara consapevolezza dell’abbandono (e tu non ci sarai/e tu non ci sarai) ribadita dalla ripetizione del verso e resa ancora più dolorosa da un senso di appartenenza racchiuso nel sintagma amore mio.

  La seconda strofa presenta invece delle variazioni lessicali:

 La notte dell’addio
neppure una parola
tu contro il petto mio
non vuoi lasciarmi sola
io ti prometto amore
che mi ricorderò
del bene che mi hai dato
del bene che ti ho dato
addio.

 Tuttavia, essa si attesta sullo stesso campo semantico; ed ecco ancora il vuoto, che è assenza fisica, di luce e di suono (La notte dell’addio/neppure una parola), in opposizione al  pieno tangibile della presenza corporea (tu contro il petto mio), mentre riappare sullo sfondo lo spettro dell’abbandono (non vuoi lasciarmi sola), che questa volta, però, sembra essere sublimato dalla persistenza della memoria, che nessun vuoto potrà ingoiare (io ti prometto amore/che mi ricorderò/del bene che mi hai dato/del bene che ti ho dato) sebbene inesorabile (addio).

  Ma è nel bridge che il dolore riaffiora intenso, esasperato dall’ anafora dell’avverbio come e dall’epanalessi del pronome nessuno, mentre il vuoto torna ad ingoiare la materia.

La rima baciata degli ultimi tre versi e la forza dei suoni aspri e allitteranti (ovvero che si ripetono) delle consonanti c, z, s, t spezzano l’andamento più pacato delle prime due strofe e danno “suono” a un dolore più gridato.

 

Come un filo che si spezza
come sabbia che nessuno mai nessuno
può tenere tra le dita
ora la tua vita
si allontana dalla mia

Perciò la separazione è come un filo che si spezza e lascia il nulla dove era unione, è come sabbia che nessuno mai nessuno può tenere tra le dita, e ciò che con-tiene si trasforma in via di fuga.

  Le ultime due strofe, per finire, sono uguali fra loro e simili alla prima da cui si differenziano soltanto per due variazioni.

La prima (mancherai al posto di non ci sarai) accresce in un climax il dolore della perdita, ribadito dall’anafora della vocale e (e tu non ci sarai/e tu mi mancherai), passando dal piano della percezione oggettiva a quello emotivo e soggettivo in cui ogni cosa esterna acquista senso e risonanza.

La seconda variazione (addio al posto di amore mio), volgendo dal senso di appartenenza a quello di privazione, sancisce definitivamente il distacco.

  Dopo quest’analisi poco potrebbe aggiungersi a sottolineare il pregio poetico di un testo come “La notte dell’addio”, che, con sapienti contrapposizioni ed efficaci similitudini attinte dall’immaginario profondo e collettivo, tocca le corde di ogni uomo che, almeno una volta nella vita, è rimasto lì, immobile, impotente a sopportare il dolore, la notte ed il vuoto dell’abbandono.

Tuttavia, come si profila appena nel testo, quasi sottovoce, la memoria rimane l’unico modo per strappare al buio dell’oblio ciò che è perduto e riconsegnarlo, nei suoi aspetti più puri, alla luce del ricordo, se solo riuscissimo a dire: io ti prometto amore che mi ricorderò del bene che mi hai dato, del bene che ti ho dato, addio.

  Massimo Camarda

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